venerdì 28 luglio 2017

INDICE ISTAT

Newsletter economico-statistica e promozionale del 14/07/2017
Il numero indice per il mese di giugno (base 2015=100) è pari a: 101,0
Principali variazioni rispetto al mese di giugno 2017
variazione mensile per il periodo maggio 2017 - giugno 2017: -0,1%
variazione annuale per il periodo giugno 2016 - giugno 2017: +1,1%
variazione biennale per il periodo giugno 2015 - giugno 2017: +0,8%
Prossimo comunicato relativo all'indice di luglio 2017: 11 agosto 2017

giovedì 27 luglio 2017

Condominio: è record di spese condominiali non pagate

La crisi morde le famiglie italiane, costrette a tagliare le spese superflue, ma sempre più spesso obbligate a fare i conti anche sui consumi di generi di prima necessità, le utenze, le spese legate alla casa. Sintomatico della gravità della situazione, in particolare, il dato che emerge dall'indagine ANACI sulla morosità nelle spese condominiali: circa il 22% dei condomini in Italia non paga regolarmente le rate del condominio.
La rata delle spese condominiali è sempre più difficile da pagare per gli italiani e molti, effettivamente, non saldano in tempo le spettanze del condominio del quale fanno parte. Al punto che per molti amministratori di condominio chiudere il bilancio annuo significa talora lasciare impagati i fornitori, a causa degli ammanchi nelle entrate. A volte si tratta addirittura di forniture di primaria necessità per gli inquilini, pensiamo alle spese idriche.
Sono i dati di ANACI(Associazione Nazionale Amministratori Condominiali e Immobiliari) diffusi da AGIRE.tv a confermarlo. I picchi sono segnalati dalle sedi territoriali dell'associazione degli amministratori condominiali di Torino (30% dei condomini non puntuali) e del Sud Italia (tra il 25% e il 30% di inquilini in mora). Importanti le percentuali di morosità fatte registrare a Roma (attorno al 20%), in forte crescita rispetto all'anno precedente (+10%). Anche a Bolzano si conta un 20% di quota di condomini che non saldano regolarmente la rata condominiale, mentre a Milano la percentuale di morosi nei confronti del proprio condominio non supera di molto il 10% del totale.
Una situazione molto variegata, ma che fa emergere a livello nazionale un dato preoccupante: complessivamente, circa il 22% dei condomini risulta moroso.
Gli importi non saldati, tra l'altro, sono spesso importanti per l'economia del condominio e determinano gravi ammanchi nella gestione delle finanze dello stabile: dai 400€-500€ di importo medio di insolvenza a Torino e Roma si arriva a toccare persino i 2.500€-3.500€ a Milano.
Morosità che, parlando della durata temporale dell'insolvenza, tocca i 6 mesi a Roma e al Sud Italia, determinando un grave e persistente disequilibrio nella gestione della liquidità da parte degli amministratori di condominio. Questi, per far tornare i conti, sono così costretti nella maggior parte dei casi a ritardare il pagamento dei fornitori. Visti gli importi elevati, sono le ristrutturazioni edilizie le opere per le quali si salda il corrispettivo ai fornitori più frequentemente in ritardo.

mercoledì 26 luglio 2017

3 ragioni per cui l’affitto è in crescita anche se le compravendite sono ripartite

Gli italiani ricominciano a comprare casa, gli affitti sono destinati a sgonfiarsi. Sbagliato: ecco cosa succede sul mercato immobiliare

 

Compravendita e affitto: analisi del legame tra questi due mercati, al di là di facili semplificazioni

Breve storia triste: in pochi anni le case vendute ogni anno nel nostro paese hanno letteralmente subito un dimezzamento, passando dalle 869.308 transazioni del 2006 alle 403.124 del 2013.
Non è senz’altro un dato nuovo, tutti sono consapevoli delle grandi difficoltà che il mercato immobiliare italiano ha attraversato negli anni recenti. E tutti sono consapevoli del fatto che l’ancora di protezione per le migliaia di famiglie che si sono viste negare un mutuo dalle banche, principale motivo della crisi delle compravendite residenziali, è stato l’affitto.
Naturale alternativa all’acquisto, la locazione ha svolto quel ruolo sociale che le compete, fornendo una valida soluzione abitativa alle famiglie che cercavano un tetto per sé.
Un vero boom, quello delle locazioni, giunte a livelli davvero significativi: 1,5 milioni di contratti, tenendo conto dei soli contratti “ufficiali”, registrati dall’Agenzia delle Entrate. E, purtroppo, ben sappiamo che questo milione e mezzo di contratti rappresenta solo una quota degli affitti davvero stipulati ogni anno in Italia, dato l’ancora abbondante sommerso.
Chiunque è stato portato ad associare i due fenomeni, facendo 2+2=4. Sono calate le compravendite e, di conseguenza, sono cresciuti gli affitti. Di converso, il senso comune è portato a dirci: quando le compravendite cresceranno, gli affitti caleranno. Come dire: 4-2=2.
Una facile semplificazione, che trova però, almeno in parte, una smentita nei fatti.
I fatti ci dicono che , a fronte della ormai consolidata ripresa delle compravendite immobiliari (timida nel 2014 e 2015, ben più marcata lo scorso anno: +18,9%, arrivando a complessive 533.741 transazioni), gli affitti non hanno subito il ridimensionamento che ci si attendeva.
Anzi: dal 2014 hanno fatto un balzo in avanti notevole: superati 1,65 milioni di contratti, sono giunti nel 2016 alla soglia del milione e settecentomila contratti (1.690.520 contratti di locazione registrati all’Agenzia delle Entrate).
Se le compravendite sono cresciute di 130.000 unità dal 2013 ad oggi, perché gli affitti sono cresciuti di 200.000 contratti nello stesso arco temporale?

3 ragioni strutturali che spingono l’affitto al di là dell’andamento congiunturale delle compravendite

 

Flessibilità del lavoro e rigidità dell’acquisto con mutuo: alla ricerca di un nuovo equilibrio

Comprare casa con un mutuo, si sa, è un matrimonio con la banca. E il divorzio è assai più difficile e oneroso che rispetto al proprio partner.
Per questo gli italiani, che nel nuovo millennio hanno iniziato a fare i conti con:
• un mercato del lavoro più flessibile: il popolo delle Partite Iva non è mai stato tanto numeroso, e anche chi dispone di un contratti di lavoro subordinato risente di una maggiore flessibilità, di scadenze frequenti fino ai trenta-quarant’anni
• un contesto economico soggetto a continui mutamenti e globalizzato, nel quale anche chi dispone di un contratto a tempo indeterminato “vecchio stile” può trovarsi da un giorno all’altro con l’azienda che chiude, delocalizza, etc.
Di fronte a tanta flessibilità (e incertezza, non nascondiamocelo!) nelle entrate familiari , il mutuo è un impegno che non tutti sono ormai disposti ad accettare.
Se negli anni Ottanta la casa di proprietà era un mantra, oggi lo è rimasto per pochi. Ma anche per chi desidera comprare casa, l’esigenza di legarsi ad un mutuo per vent’anni, unita alle incertezze reddituali di medio-lungo termine tipiche per la stragrande maggioranza dei Millennials, funge da freno a molti giovani potenziali acquirenti.

 

Maggiore mobilità all’interno del territorio nazionale e flussi migratori verso l’Italia

Nasco nella mia città, studio quanto più vicino possibile a casa, cerco lavoro nella mia città, compro casa e metto su famiglia nella mia città. Questo il percorso di vita dell’italiano medio, non più di venti, trent’anni fa.
Oggi le cose sono cambiate, notevolmente. È raro che chi nasce in una città risieda sempre e stabilmente in quel posto. Fin dagli anni dell’università l’abitudine alla mobilità è ormai connaturata negli italiani. E, successivamente, la ricerca di un lavoro porta molti a spostarsi: trasferimenti di pochi chilometri a volte, spostamenti di città o di regione in altri casi. Come, d’altronde, sono sempre più frequenti gli italiani che fanno esperienze (transitorie a volte, permanenti in altri casi) di vita all’estero.
In questo mutato contesto, mettere radici può essere visto come un vincolo, più che come un’opportunità.
Perché investire in un immobile che potrebbe costringermi a restare qui qualora, nel giro di pochi mesi o anni, avessi voglia o esigenza di spostarmi? O che mi potrebbe richiedere un rapido disinvestimento, con buone probabilità di doverci perdere soldi, vista la necessità di disfarmi dell’abitazione comprata?
L’affitto è senz’altro uno strumento più adatto alle mutevoli esigenze dei giovani italiani, permettendo loro di soddisfare l’esigenza abitativa attendendo orizzonti stabili prima di fissare le proprie radici.
Allo stesso modo, è – da sempre – la soluzione preferita per chi si trasferisce nel nostro paese più o meno stabilmente. Chi viene in Italia generalmente si avvale di una casa in affitto, almeno inizialmente; e, sebbene la preferenza di chi emigra nel nostro paese per la locazione non sia certo una novità, la presenza di cittadini stranieri in Italia è senz’altro destinata a crescere.
Anche i flussi migratori verso il nostro paese contribuiscono (e sempre più contribuiranno) ad alimentare l’esigenza di affitto in Italia.

Un concetto di famiglia più sfumato comporta esigenze abitative più adattabili al contesto familiare

Nel corso degli ultimi vent’anni “sposarsi e fare figli” è diventato un percorso di vita meno lineare di quanto non lo fosse per i nostri genitori o nonni.
Trovare l’anima gemella al primo colpo non è affatto semplice (anzi, una rarità!). Andare a vivere da soli prima di mettere su casa insieme al proprio partner è un passaggio molto frequente. Passare da una convivenza prima di sposarsi è la norma (e, a dire il vero, “prima di sposarsi” è una forzatura: oggi questo passaggio non è affatto scontato).
Allo stesso modo, il matrimonio – che ci piaccia o no – non è più quell’istituto indissolubile che molti di noi hanno da sempre creduto. Separazioni e divorzi non sono il lieto fine sognato all’inizio di qualsivoglia relazione, ma sono momenti che toccano molti di noi.
Tanto l’inizio della relazione e l’esigenza di sperimentarsi come coppia, con una convivenza, quanto la separazione e la necessità di trovare spazi nuovamente indipendenti dal proprio ex-partner richiedono un appoggio, più o meno temporaneo. Ove non si disponga di un immobile di proprietà per questo, l’affitto è la soluzione naturale.
Dato che la società si sta dirigendo verso rapporti sempre più “liquidi”, la locazione è destinata ad accompagnare questo trend crescente.

martedì 25 luglio 2017

Cucina etnica e animali domestici, ma non solo: quali cattivi odori provocano liti in condominio

Si sa, in Italia la lite condominiale è uno sport nazionale. E il classico “casus belli” è il cattivo odore proveniente dall’appartamento del vicino. Un dirimpettaio amante del fritto o della cucina speziata. La puzza dei bisogni del cane o del gatto dell’inquilino che abita a fianco. Oppure le maleodoranti fognature dell’edificio che necessitano di urgente manutenzione. Sia quel che sia, le esalazioni provenienti dal condomino della porta accanto provocano spesso diverbi e lamentele. Vediamo quali sono le immissioni meno tollerabili dai condomini del nostro paese.
L’altra sera, facendo le scale, sono passato davanti all’appartamento dei nuovi vicini di casa. Tre simpatici ragazzi pakistani, molto gentili e sorridenti. Spero potremo trovare il modo di conoscerci meglio, magari di scambiare quattro chiacchiere e cercare interessi in comune.
Una l’ho già scoperta: la passione per il curry. L’ho capito subito! Non per una particolare intesa che si sia creata tra noi, ma semplicemente perché, appena entrato nel vano scale, mi è arrivata una zaffata di odore di curry che neanche al ristorante indiano.
Non che io abbia qualcosa in contrario, eh?, ci mancherebbe! A me il curry piace da morire. Se solo mi invitassero a cena, almeno per condividere tanta bontà e non farmela solo desiderare…
Temo però che, come succede in moltissimi condomini, presto scoppierà la guerra di pianerottolo. D’altronde, mica tutti amano il curry quanto me!

Cattivi odori: quali provocano più liti condominiali?

Il mio non è certo l’unico condominio in Italia ad avere problemi di “immissioni”, come in gergo vengono definite le esalazioni e gli odori che provengono dalle parti comuni o dalle singole unità immobiliari presenti nel condominio.
Secondo un recente studio promosso dall’Associazione Nazionale Amministratori d’Immobili (ANAMMI), sul totale di 67 mila consulenze fornite in tutto il paese dagli amministratori di condominio associati ANAMMI, circa il 30% (20 mila) è riconducibile a liti condominiali dovute a cattivi odori

1) La cucina è la regina del cattivo odore, con il 35% delle liti condominiali

Come per me, anche per il 35% dei condomini che si lamentano con il proprio amministratore della puzza proveniente dall’appartamento del vicino di casa il problema nasce dalla cucina.
Cibi speziati, generalmente, soprattutto se il vicino di casa è straniero; fritto, pesce, cavolo, cipolla o aglio se è la cucina nostrana a provocare disturbo alla quiete olfattiva del vicinato.
Nulla che il potenziamento (o l’installazione, se assente) della cappa di aerazione della cucina o l’adeguamento della canna fumaria non possa limitare. Ma, evidentemente, non è una spesa che tutti sono disposti a fare. O una regola di convivenza civile che tutti hanno fatto propria.

2) Animali domestici, 30% delle controversie sono dovute ai bisogni di gatti e cani

Se la riforma del condominio ha vietato che qualsivoglia regolamento possa vietare ai condomini di detenere animali domestici in condominio, non ha di certo dato il via al malessere legalizzato per i vicini di casa.
La pipì del proprio cane o gatto vanno adeguatamente contenute e l’igiene deve essere costante e attenta, per evitare che i sgraditi effluvi dei bisognini dei propri animali domestici coinvolgano i vicini di casa.
Se il buon senso suggerisce la massima attenzione alla pulizia della lettiera del proprio animale domestico, affinché i naturali cattivi odori non giungano fino a casa dei vicini, la pratica sembra ancora molto distante dalla teoria.

3) 15% le liti dovute ad attività commerciali: il ristorante o il take away sotto casa, ma non solo

Raramente l’apertura di un take away di kebab o patatine fritte, così come di un ristorante cinese o indiano, sono stati accolti con particolare favore nei condomini di tutta Italia.
Certo, significa un’alternativa gastronomica comoda; ma anche un’elevata probabilità che si alzino dalle cucine gli odori più sgradevoli.
Non è tuttavia il ristorante l’unica categoria di esercizio commerciale o di attività imprenditoriale che determina disagi tra i condomini: anche botteghe artigiane e officine che utilizzino vernici e solventi possono provocare le rimostranze degli inquilini dei piani superiori.

4) Fogne e cantine: il problema proviene dai bassifondi nel 12% dei casi

La manutenzione delle fognature è uno dei capisaldi per evitare esalazioni che salgano dalle tubature e giungano nelle unità immobiliari dei condomini.
È compito dell’amministratore porre in essere i rimedi tecnici ai problemi di maleodore provenienti dalle fogne, che possono risultare particolarmente sgradevoli.
Simili, ma più spesso riconducibili alle condizioni igieniche garantite dai proprietari, le controversie dovute alle esalazioni provenienti dalle cantine del condominio.

5) Persino i detersivi (8% dei casi) possono turbare la quiete condominiale

Può sembrare strano, ma anche la pulizia può essere la fonte di litigi da cattivo odore tra condomini. Eh sì, perché in 8 casi su 100 sono i detersivi ad emettere effluvi non graditi agli inquilini del pianerottolo adiacente.

Immissioni e normale tollerabilità. Cosa prevede la legge riguardo ai cattivi odori?

È l’art. 844 del codice civile a regolare le immissioni (comprese quelle relative ai cattivi odori), stabilendo che:
Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi. Nell'applicare questa norma l'autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso.
Una definizione che pone il discrimine tra il diritto del mio vicino a compiere attività che influiscano sulla mia proprietà con i propri cattivi odori e il mio diritto ad impedirgli l’attività generatrice di immissioni di fumo o esalazioni nella “normale tollerabilità” del fumo o delle esalazioni stesse.
Facile comprendere come il concetto di normale tollerabilità sia piuttosto difficile da valutare oggettivamente, a meno che non sia un giudice a stabilirlo. Difficoltà di una valutazione oggettiva che determina una facilità di controversia, come evidente.
A maggior ragione perché nel testo della norma si fa anche riferimento alla “condizione dei luoghi”, ovvero alle situazioni concrete delle parti.
Ad esempio, sarà influente il carattere di continuità, o comunque di periodicità, dell’immissione di odori: friggere con dispersione di odori ogni tre mesi sarà difficile che turbi qualcuno, farlo una volta ogni due giorni probabilmente di più.
Ma cosa può fare il condomino che ha problemi di cattivi odori emessi da un vicino di casa?Diverse sono le soluzioni che la legge prevede.
In linea generale, per casi come quelli dei cattivi odori derivanti dalla cucina dell’inquilino del piano di sotto o dai bisogni dei gatti o cani del vicino di appartamento, si può richiedere al giudice di inibire l’attività che il padrone del fondo vicino pone in essere con immissione di odori o fumi. In sostanza, il giudice che valuti il superamento della normale tollerabilità può imporre al condomino che provoca fastidio al vicinato di astenersi dall’azione oggetto del contendere.
È anche possibile chiedere al giudice il risarcimento del danno che l’azione avesse eventualmente provocato. Tuttavia, la casistica dei danni provocabili da cattivi odori appare piuttosto residuale, se confrontata con immissioni di altro genere. Pensiamo ad esempio alle immissioni per rumori o a quelle per esalazioni o fumi generati dalla combustione di sostanze chimiche, che possono persino avere effetti nocivi sulla salute dei condomini circostanti (e, in quanto tali, essere oggetto di ricorso a richiesta di procedura d’urgenza).

lunedì 24 luglio 2017

Nuova tassa sugli affitti brevi. Tutto pronto?

Debutto ufficiale della tassa sulle locazioni turistiche.


Con la sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (n. 95 del 24/04/2017) è entrato in vigore, pur con qualche incertezza applicativa, il Decreto Legge n. 50 del 24 aprile 2017, che contiene “Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo” e che è nota con la definizione di “manovrina”. Permangono, nonostante alcune scadenze immediate, molti dubbi su come applicare la norma e sui procedimenti. Soprattutto sale l’attesa per una circolare dell’Agenzia delle entrate che possa illuminarci sulle procedure concrete.
Prima di provare a semplificare la manovra e punto per punto analizzarne gli aspetti salienti dell’art. 4 del Decreto, che ci interessa da vicino perché introduce degli oneri per chi si occupa di affitti brevi, manifestiamo una certa perplessità circa la data a partire dalla quale sono scattati gli obblighi previsti (1° giugno 2017), che è ricaduta in un momento in cui:
1) risultava ancora in corso una conversione in legge del Decreto, la quale potrebbe apportare alcune modifiche alla norma
2) soprattutto, non è ancora stato emanato il provvedimento con cui l’Agenzia delle Entrate dovrà fornire i necessari chiarimenti applicativi.

Con queste premesse e non potendo più attendere, quindi, commenteremo la norma nel suo contenuto dubbio per dubbio, auspicandoci di poter presto fornire maggiori indicazioni applicative, una volta disponibili.


Definizione
1. Quali sono i contratti coinvolti?

Per la prima volta abbiamo una definizione esatta degli affitti brevi, definiti come quei contratti di affitto di immobili ad uso abitativo di durata non superiore a 30 giorni; stipulate tra persone fisiche, dunque al di fuori di attività d’impresa. Sono comprese altresì gli affitti brevi con annessi servizi (biancheria e pulizia), ma non è ben chiaro cosa si voglia significare con questo riferimento: la locazione con servizi annessi in alcune Regioni non è consentita (d’altra parte la locazione di per sé non comporta alcun servizio), pertanto si potrebbe presumere che si intenda estendere l’applicazione della norma alle cosiddette “Case e Appartamenti per Vacanze” (ove gestite in forma non imprenditoriale) ed i Bed & Breakfast.
Un discreto pasticcio, dato che in questo modo la norma sulle “locazioni brevi” andrebbe ad invadere il campo delle strutture ricettive extra-alberghiere, che normalmente sono gestite con la classica formula del check-in e check-out, senza la stesura di alcun contratto di affitto.

2. Quando?


A decorrere dal 1° giugno 2017, ai redditi derivanti dai contratti di affitti brevi stipulati a partire da tale data si applicano le disposizioni relative alla cedolare secca, con l'aliquota del 21 per cento in caso di opzione. Nessuna novità, sembrerebbe, se per locazione breve si intendesse la locazione pura. Certo sarebbe invece una novità l’applicazione della cedolare ai casi di ricettività extra-alberghiera (per esempio bed & breakfast), ai casi quindi che, oltre alla locazione, prevedono la fornitura di servizi.

3. Su quali contratti?


Oltre ai contratti di affitto, la cedolare secca può essere applicata anche sui redditi derivanti dai contratti di sublocazione e dai contratti a titolo oneroso conclusi dal comodatario aventi ad oggetto il godimento dell'immobile a favore di terzi. Questa è certamente una novità, dal momento che i contratti di sublocazione e quelli conclusi dal comodatario erano finora esclusi dall’applicazione della cedolare. Tale allargamento riguarda, beninteso, le sole “locazioni brevi” come sopra definite.

4. Chi paga?


I soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare, anche attraverso la gestione di portali on-line, mettendo in contatto persone in ricerca di un immobile con persone che dispongono di unità immobiliari da locare, trasmettono i dati relativi ai contratti di cui ai commi 1 e 3 conclusi per il loro tramite. L'omessa, incompleta o infedele comunicazione dei dati relativi ai contratti di cui al comma 1 e 3 è punita con la sanzione di cui all'articolo 11, comma 1 del Decreto Legislativo 18 dicembre 1997, n. 471. La sanzione è ridotta alla metà se la trasmissione è effettuata entro i quindici giorni successivi alla scadenza, ovvero se, nel medesimo termine, è effettuata la trasmissione corretta dei dati. Stando al testo della norma, sembrerebbero esclusi dalla sua applicazione i casi di agenzie che concedono direttamente in godimento immobili con la formula del “vuoto per pieno”, non trattandosi di intermediazione ma di mandato senza rappresentanza. D’altra parte a confermarlo sarebbe la stessa natura imprenditoriale dell’attività delle agenzie, che come abbiamo visto comporta l’esclusione dal campo di applicazione della norma, rivolta ai privati. Sarà compito dell’Agenzia delle Entrate specificare meglio ed eventualmente confermarlo. In ogni caso, la stessa Agenzia delle Entrate dovrà specificare (al momento non lo ha fatto) in che modo andranno comunicati i dati relativi ai contratti di locazione breve intermediati. Da oggi, in sostanza, esiste un obbligo ma non è noto il modo di rispettarlo.

5. Come?


Questo è il punto più importante della norma: gli intermediari trattengono dalla cifra da versare al proprietario una sorta di ritenuta d’acconto, che si calcola al 21%, come l’imposta di cedolare secca se poi il proprietario opterà per tale regime, o come acconto Irpef nel caso si rimanga nella tassazione tradizionale.
La norma recita: Per assicurare il contrasto all'evasione fiscale, i soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare, anche attraverso la gestione di portali on-line, qualora incassino i canoni o i corrispettivi relativi ai contratti di cui ai commi 1 e 3, operano, in qualità di sostituti d'imposta, una ritenuta del 21 per cento sull'ammontare dei canoni e corrispettivi all'atto dell'accredito e provvedono al relativo versamento con le modalità di cui all'articolo 17 del Decreto Legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e alla relativa certificazione ai sensi dell'articolo 4 del Decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322.
Nel caso in cui non sia esercitata l'opzione per l'applicazione del regime di cui al comma 2, la ritenuta si considera operata a titolo di acconto.
Qualora incassino anche il canone per conto del proprietario, i soggetti di cui al comma precedente dovranno operare ritenuta al momento dell’accredito al locatore. A seconda dell’opzione del locatore, questa ritenuta varrà come imposta cedolare o come acconto IRPEF. Per le modalità di effettuazione della ritenuta, oltre che per l’invio della certificazione unica al cliente, è certamente opportuno un approfondimento dell’agenzia delle entrate in materia; al momento, segnaliamo, non è ancora stato fornito un codice tributo specifico (anche per questo sarà illuminante il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate).


6. Perchè?


Ultimo paragrafetto dedicato al perché di tale norma, introdotta con l’obiettivo (come già lo era per la cedolare secca) di far emergere il sommerso e le tante evasioni legate a questo mercato. Poiché l’obbligo di registrare i contratti insiste solo sui contratti di durata superiore a 30 giorni, tutti questi contratti, brevi per definizione, rischiano di non essere controllati dall’agenzia delle entrate. Ora l’obbligo di prelievo del 21% sui canoni percepiti, così come di dichiarazione ricade sui contratti conclusi da intermediari, mentre rimangono ancora esclusi contratti gestiti direttamente tra privati.
Mentre ci teniamo pronti a darvi aggiornamenti quando la Legge di Conversione sarà pubblicata in Gazzetta Ufficiale, intanto abbiamo un inizio.
Un inizio, ancora molto incerto.. , tutto da scoprire vivendo, come la calda estate che ci aspetta.

giovedì 20 luglio 2017

2 Millennials su 3 scelgono l’affitto. E il mito della casa di proprietà?

Comprare casa per i giovani: da passaggio imprescindibile a scelta di vita troppo impegnativa.



L’acquisto di un’abitazione è sicuramente cosa di per sé non facile per i giovani d’oggi. Ma neppure così ambita, a quanto pare.
È quanto emerge da un’indagine Doxa per Idealista che fornisce uno spaccato sulla preferenza tra acquisto e affitto dell’abitazione per i giovani che vanno a vivere fuori casa dei genitori.
Se per le generazioni uscite di casa negli anni ’70 e ’80 la proprietà era l’approdo preferito da chi poteva permetterselo, oggi appare a sempre più giovani come una scelta troppo rigida e impegnativa.

Acquistare o affittare? L’evoluzione del rapporto con la casa per i giovani italiani


Un recente sondaggio Doxa per il portale immobiliare Idealista, condotto su un campione di 1.000 persone, ha cercato di fornire uno spaccato multi-generazionale sul rapporto tra giovani e casa.
Quando i giovani italiani escono di casa, preferiscono l’affitto o l’acquisto? Questo il tema sul quale l’interessante indagine ha fatto luce. Mostrando un trend evolutivo che fa riflettere.
Le generazioni cresciute nell’immediato dopoguerra, grazie al diffondersi della ricchezza durante il cosiddetto Boom Economico, avevano progressivamente visto aumentare le possibilità di acquistare un’abitazione fin da giovani.
Uscire da scuola presto. Trovare un lavoro stabile, che ci avrebbe accompagnato per tutta la vita. Sposarsi e costruire o comprare casa, il luogo dove vivere per il resto della propria vita. Questo l’iter, pressoché irrinunciabile, per chi raggiungeva la maggiore età e l’indipendenza economica negli anni Sessanta e Settanta.
L’acquisto della casa era un passaggio fondamentale, per chi poteva permetterselo. L’aspirazione o il sogno, per chi non poteva permetterselo.
Quasi la metà (46%) dei “baby boomers”, i figli del miracolo economico italiano del dopoguerra, già dal momento dell’uscita di casa dei genitori, sceglievano di farlo comprandone una per sé.
Situazione analoga a quella riscontrabile per i giovani della “generazione X”; ovvero, semplificando, tutti quelli nati dalla metà degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta. 47% la quota di coloro che fin dalla prima esperienza di vita fuori dal nido familiare andavano a vivere sotto un tetto di proprietà.
I ventenni e trentenni degli anni Ottanta e Novanta risultano ancora pienamente ancorati alla mentalità tipica italiana della casa di proprietà come bene rifugio, del mattone come deposito sicuro dei risparmi di una vita.
Radicale il cambiamento del modo di considerare la casa per i cosiddetti Millennials, ovvero dei venti-trentenni di oggi. Generazione alla quale, con piacere, ho scoperto di fare – seppure ancora per poco – parte! E io che già mi sentivo vecchio…
Ben il 66%, ovvero 2 su 3, dichiarano di aver scelto l’affitto come prima soluzione abitativa indipendente rispetto all'abitazione della famiglia di provenienza. Un dato che mostra l’evidente ridimensionamento del fascino della casa di proprietà per l’ultima generazione di venti-trentenni.
Ma perché questo cambiamento? E soprattutto: la rivalutazione dell’affitto per i giovani è destinata a passare o può considerarsi un’evoluzione duratura?
Due categorie di fattori ci indicano che questa maggiore preferenza dei giovani per l'affitto potrebbe essere un cambiamento di lungo periodo per la nostra società.

L’affitto “per necessità”: l’alternativa obbligata per chi non riesce a comprare casa ma vuole indipendenza


L’affitto in questi anni è stato il paracadute per i tanti giovani che volevano comprare casa, ma si sono visti chiudere la porta in faccia dalle banche nel momento in cui chiedevano un mutuo.
È il cosiddetto “affitto per necessità”: prendo una casa in locazione perché non posso permettermi di comprare una casa tutta mia.
Una situazione che, con la crisi del mercato immobiliare delle compravendite che ha coinvolto il nostro paese dal 2008 in avanti, ha riguardato milioni di giovani.
Ora le cose sembrano andare meglio. Nel 2016 le compravendite hanno segnato una buona ripresa, raggiungendo le 517.164. Rispetto ai minimi di scambio toccati nel 2013 (403.124 immobili residenziali compravenduti), abbiamo recuperato oltre 100.000 transazioni.
Certo, nulla a che vedere con i livelli di mercato di dieci anni fa, quando ogni anno erano oltre 800.000 le case che venivano vendute in Italia.
E proprio questa rimane la criticità: quanto è credibile pensare di tornare ai livelli pre-crisi in pochi anni? E quanto è credibile che siano soprattutto i giovani, la generazione più colpita dal fenomeno della precarietà, a poter guidare la ripresa delle compravendite?
Proprio per questo il fenomeno della locazione “per necessità” non pare destinato a sparire.
C’è anche un altro ordine di considerazioni, un po’ meno evidenti ma altrettanto importanti, che ci fanno ritenere che le compravendite perse non siano facilmente recuperabili. E che gli “affitti per necessità” non siano un fenomeno poi tanto passeggero.
Lo scorso anno sono stati erogati mutui per l’acquisto di abitazioni per quasi 50 miliardi di euro, pari a più del doppio di quelli concessi dalle banche alle famiglie italiane nel 2013 (poco più di 21 miliardi). Ma perché così tanti mutui in più? È una tendenza destinata a rimanere?
Speriamo! Sta di fatto che oggi i tassi di interesse si aggirano attorno allo zero (se non qualcosa meno, per i titoli del debito pubblico più sicuri!).
Rispetto a prima, la convenienza per le banche a concedere mutui alle famiglie piuttosto che a finanziare Stati sovrani acquistando titoli del debito pubblico è molto maggiore. Il “giochino” che hanno fatto tante banche (attingere liquidità dalla Banca Centrale Europea a tassi bassissimi ed investirli nei titoli sovrani piuttosto che nell’economia reale) non vale più la candela.
Tuttavia, i tassi di interesse nulli che caratterizzano questa fase di mercato non possono durare tanto a lungo, e non è affatto scontato che le banche non ricomincino nuovamente a preferire altre forme di impiego percepite come meno rischiose. Le basi sulle quali si fonda la ripresa delle compravendite non è poi così solida, a ben vedere.

L’affitto “per scelta”: la casa di proprietà non garantisce la flessibilità che cercano i giovani d’oggi


Fino a pochi decenni fa, lo abbiamo visto, chi non usciva di casa comprandosene una propria lo faceva solo perché non poteva proprio permetterselo. La mentalità diffusa portava a considerare la proprietà come unica vera risposta all’esigenza della casa.
Ci sono passato anch’io, quando mi sono sentito dire da mio padre l’immancabile frase “ma perché devi buttare via i soldi nell’affitto?”.
Un mantra, quello del buttare via i soldi dell’affitto, per chi, come lui, è cresciuto sapendo che, una volta che avessi messo da parte il necessario, conveniva comprare la casa, che poi ti sarebbe andata bene per tutto il resto della vita. Quel passaggio conveniva farlo prima possibile, per non doverci più pensare.
Eppure io, come tanti altri giovani Millennials (ci ho preso gusto a sentirmi giovane, ora che ho scoperto di esserlo!), la vedevo diversamente.
Perché comprare casa è una scelta impegnativa. Vuol dire accollarsi un mutuo che rimarrà compagno fedele per venti o trent’anni. Prendersi un impegno forte, senza però godere di una serie di garanzie che le generazioni precedenti potevano considerare pressoché scontate.

•   Il luogo dove si abita rimarrà lo stesso nel tempo?


Se i nostri genitori, una volta trovato lavoro e messa su famiglia, potevano stare praticamente certi che quella sarebbe stata la città, o il territorio, in cui avrebbero passato il resto dei propri giorni, oggi le cose sono cambiate.
La mobilità sociale è aumentata, soprattutto per i giovani, e spostarsi da una città all’altra, ma anche da una regione all’altra (se non, persino, trasferirsi all’estero) è molto più frequente che per i giovani delle precedenti generazioni.
Molte possono essere le motivazioni; fra tutte, sicuramente spiccano quelle legate ad opportunità di studio e lavoro. Ma, perché no?, nella società odierna è molto più frequente, soprattutto da giovani, spostarsi per seguire le proprie aspirazioni. Per molti non è più un sogno irrealizzabile il potersi trasferire nel posto in cui si è sempre desiderato vivere.

Comprare casa significa doversi legare da uno specifico luogo per un orizzonte temporale indefinito. Oppure andare incontro, in caso di necessità o desiderio di spostarsi, a forti costi reali o potenziali: la non generosa imposizione fiscale, il costo del notaio e dell’eventuale agenzia immobiliare, oltre al rischio di forti svalutazioni dell’immobile in caso di vendita in un momento di congiuntura negativa dei prezzi (pensate a chi aveva comprato nel 2006 e oggi deve vendere casa!).
L'affitto è una forma meno rigida di vivere e abitare, di fronte a prospettive di vita più flessibili di prima.

•   Gli spazi abitativi necessari oggi rimarranno gli stessi nel tempo?


Comprare casa una volta usciti dal nido familiare, per un giovane, significa avere già le idee ben chiare sul proprio futuro familiare.
Per chi è single non è senz’altro facile prevedere come evolverà la propria condizione familiare nel tempo. Così come per le giovani coppie: la previsione di se e quanti fiocchi azzurri o rosa arriveranno sul portone di casa non è sempre facile da fare. Né è possibile acquistare una soluzione abitativa ben più larga delle proprie esigenze, soprattutto dove i costi sono proibitivi, come nelle grandi città.
Meglio, per molti, una casa in affitto: sia per chi, single o in una coppia ancora non consolidata, vuole valutare meglio come si evolvono le cose, in attesa di orizzonti più chiari; sia per chi fa parte di una coppia stabile e desidera sperimentare una convivenza in un immobile in locazione, prima di cercare un alloggio di proprietà.
Infine, è necessario evidenziare anche chi ricorre all’affitto per l’esigenza opposta, ovvero quella di ridurre spazi e costi: pensiamo a chi deve trovare una nuova sistemazione perché si separa o divorzia. Come sappiamo, non è un fenomeno marginale: il nostro paese ha visto aumentare esponenzialmente la “flessibilità familiare” rispetto a qualche decennio fa. Spesso, per chi si trova nella categoria dei “single di ritorno”, la casa in affitto può essere la soluzione più pratica, economica e veloce.

Molti, come abbiamo visto, sono i fattori evolutivi della nostra società che coinvolgono, aumentandone le dimensioni, il mercato dell’affitto in Italia.
Che la società liquida del tanto citato (spesso a sproposito!) Zygmunt Bauman stia arrivando ad avere effetti anche sul mercato immobiliare?
O, più semplicemente, che il mito della casa di proprietà a tutti i costi stia svanendo?

mercoledì 19 luglio 2017

Aggiornamento Istat: 5 motivi per cui non conviene più adeguare il canone di affitto

Oltre al classico dubbio su come si calcola l’aggiornamento Istat del canone di affitto, gli aspetti da chiarire per chi ha un contratto di locazione da adeguare all’inflazione sono tanti:
- il tipo di indice da usare (FOI, mi raccomando!)
- quando si può aggiornare il canone al 100% dell’indice Istat e quando invece è obbligatorio aumentare il canone fino al massimo del 75% dell’indice Istat
- quali sono i casi in cui non è possibile applicare l’aggiornamento Istat (ad esempio, quando il locatore applica la cedolare secca per la tassazione del reddito da locazione)
- l’adeguamento del canone di locazione fun
ziona allo stesso modo per i contratti di affitto abitativi e per quelli commerciali?
Noi però lasciamo all’articolo che trovate al link sopra riportato tutte le risposte ai dubbi tecnici legati alla normativa sulla locazione. E ci chiediamo piuttosto: conviene ancora aggiornare il canone di affitto mensile che paga il conduttore in ragione dell’indice Istat?
La risposta appare scontata: sì, meglio un canone più alto, direbbe chiunque. Ma, come potete immaginare, in questo articolo sosteniamo le ragioni del no. Sono 5, per la precisione: vediamo quali.

1) Se l’inflazione è pari a zero o negativa, che senso ha l’aggiornamento Istat?

Sono almeno due anni e mezzo che l’indice Istat FOI oscilla tra il +1% e il -1%. Insomma, è fermo.
Si tratta della variazione dei prezzi al consumo per le Famiglie di Operai e Impiegati, ossia l’indicatore Istat in ragione del quale viene calcolato l’aggiornamento Istat ai contratti di locazione abitativi (considerato solo al 75%, anziché al 100%, se il contratto è canone concordato).
Se l’aggiornamento è pressoché nullo o negativo da diversi anni, ormai, la valutazione è piuttosto semplice: non conviene applicarlo.
Certo, se i prezzi dovessero tornare a salire, questa argomentazione verrebbe meno. Obiezione corretta.
Ma la domanda, a questo punto, diventa: quali aspettative di inflazione pensiamo possano esserci nei prossimi anni?
Pensiamo davvero che, con il perdurante contesto di stagnazione dei prezzi si possa entro pochi anni tornare ai (discreti) livelli di inflazione del 2007-2008 o del 2012? Pur senza sfera di cristallo, appare difficile ritenere sia uno scenario realistico.

2) Il 75% di poco è pochissimo. Convenienza bassa quando la legge non permette l’aggiornamento al 100%

Se il punto precedente non vi ha convinto, rincariamo la dose.
Perché il ragionamento è: se già l’aggiornamento è poco, pensate che per certe tipologie contrattuali quel poco deve essere ridotto del 25%.
Di quali tipi di contratto stiamo parlando? Oltre che per i commerciali, anche di tutti i contratti di locazione abitativa a canone concordato: contratto a canone agevolato 3+2, contratto a studenti universitari fuori sede, contratto transitorio.
Mentre infatti per i contratti liberi 4+4 l’aggiornamento può essere stabilito tra le parti anche in misura pari al 100% dell’indice di variazione dei prezzi, l’incremento del canone in ragione del 75% dell’indice Istat non è derogabile per le tipologie di contratto a canone convenzionato.

3) Canone costante con cedolare secca vs. canone crescente ma Irpef molto cara?

L’introduzione, dal 2011, della cedolare secca, ovvero la forma di imposizione fiscale bassa e fissa a cui le persone fisiche possono scegliere di assoggettare i propri redditi da locazione derivanti da contratti di locazione abitativi, è stato il vero spartiacque.
Perché, come molti sapranno, condizione per poter usufruire del regime fiscale della cedolare secca è rinunciare ad adeguare il canone di affitto all’indice Istat.
E il dilemma se lo sono chiarito in molti: meglio pagare poche tasse fisse e mantenere stabile il canone di affitto inizialmente pattuito con l’inquilino, piuttosto che essere liberi di applicare dei (più o meno consistenti) rincari annuali del canone ma subire, nel frattempo, un consistente aumento dell’IRPEF.
Prova della preferenza degli italiani sono le statistiche, che dal 2011 al 2015 hanno segnalato un progressivo incremento dell’utilizzo della cedolare secca nel nostro paese: dal 53% dell’anno in cui fu lanciata dal Governo all’87% dei contratti lo scorso anno nelle città principali italiane.
Segno che, per i locatori, non sono i venti euro in più di affitto al mese a fare la differenza, se l’alternativa è un consistente risparmio fiscale.

4) Niente cedolare secca per poter aggiornare il canone: ma se i contratti hanno breve durata, che senso ha?

È altrettanto importante chiedersi per quante annualità si potrà aggiornare il canone di locazione, se si sceglie di non sfruttare la cedolare secca. Infatti, l’aggiornamento è una possibilità che il locatore decide di mantenere per sé con la speranza che frutti un canone di locazione più elevato negli anni seguenti, compensando l’inflazione.
Ma la sua possibilità di avvalersi concretamente di questa facoltà di rivalutazione dipende dal conduttore. È infatti la permanenza effettiva dell’inquilino nell’immobile in affitto a determinare la lungimiranza della scelta del locatore. In caso di locazione di durata molto breve da parte dell’inquilino, l’«arma» dell’aggiornamento Istat non potrà infatti essere utilizzata dal proprietario.
La domanda diventa quindi: quanto ci si può attendere che duri mediamente una locazione abitativa? Ovvero, più concretamente: quando arriva solitamente la disdetta dal contratto di affitto da parte dell’inquilino?
L’Ufficio Studi di Solo Affitti, in una statistica relativa al 2015, ci fornisce una risposta chiara relativa alle principali città: 27,4 mesi. Ovvero, in soldoni, i contratti di locazione abitativi durano effettivamente poco più di 2 anni.
Dato che conferma che, nella maggior parte dei casi, l’aggiornamento Istat non è destinato a portare particolari frutti al locatore che, scegliendo di non scegliere la cedolare secca, si riserva la facoltà di rivalutare il canone di affitto.

5) Se i canoni di affitto sono stabili o in discesa, aggiornare il canone significa andare contro il mercato

Il mercato ha sempre ragione. E anche quando non ce l’ha, se la prende.
Per il proprietario di casa, in tempo di canoni in discesa (come negli ultimi anni, fino al 2014) o in leggera crescita (come nel 2015), puntare sull’aggiornamento del canone di affitto significa rischiare di combattere una battaglia contro il mercato. Una battaglia persa in partenza.
Sì, perché se anche l’inflazione fosse nei prossimi anni di diversi punti percentuali (cosa già piuttosto poco probabile), ma i canoni di affitto dovessero mantenersi tendenzialmente stabili (ipotesi invece abbastanza condivisa nel mondo immobiliare), rivalutare il canone di affitto significherebbe portarlo “sopra mercato”.
Spingendo così, indirettamente, l’inquilino a trovarsi una nuova abitazione da affittare, visto che i canoni delle altre abitazioni disponibili sul mercato per la locazione saranno nel frattempo divenuti relativamente più vantaggiosi rispetto al canone della casa in cui vive.
A meno quindi che i canoni di affitto non ritornino stabilmente a crescere a ritmi piuttosto elevati, la possibilità per l’inquilino di dare disdetta se l’affitto dovesse diventare «fuori mercato» è un deterrente importante all’applicazione dell’adeguamento Istat da parte del proprietario.

martedì 18 luglio 2017

Le 10 destinazioni preferite dagli italiani

La graduatoria emerge dal Summer Vacation Value Report 2017 di Tripadvisor che svela la Top 10 nazionale e internazionale delle destinazioni estive per i viaggiatori italiani in base alla crescita d’interesse di prenotazione stagionale.


Soggiornare in hotel nelle destinazioni italiane preferite dai viaggiatori locali costa, in media, meno: 162 € contro i 227 € delle mete internazionali. Tra le mete italiane più convenienti, Lecce è prima con una tariffa media a notte pari a 114 €, Cattolica è seconda con 136 € e Cesenatico segue a breve distanza con 137 €. Considerando sia la Top 10 nazionale che quella internazionale è però Bangkok la meta meno cara con una tariffa media a notte pari a 106 €. Vediamo insieme i dettagli sia dell'Italia che dell'estero.

La top 10 Italia e i costi di soggiorno


Puglia ed Emilia Romagna ospitano ben tre destinazioni a testa tra le mete italiane più gettonate per le vacanze estive, ma anche perché proprio in Puglia si trova la meta numero 1 della classifica nazionale: Gallipoli. La cittadina in provincia di Lecce è accompagnata nella Top 10 italiana da altre due mete pugliesi: Polignano a Mare (6) e Lecce (8). A rappresentare l’Emilia Romagna sono invece Cattolica (3), Cesenatico (7) e Riccione (10). Tra le altre mete italiane più popolari per l’estate emergono infine l’Isola d’Elba (2), Jesolo (4), San Vito Lo Capo (5) e Alghero (8).
1 Gallipoli (LE) - Costo medio settimana: 1.212 €  - Settimana meno cara: 25 settembre 634 €
2 Isola d'Elba (LI) - Costo medio settimana:1.345 € - Settimana meno cara: 25 settembre 700 €
3 Cattolica (RN) - Costo medio settimana: 953 € - Settimana meno cara: 5 giugno 674 €
4 Jesolo (VE) - Costo medio settimana:1.301 € - Settimana meno cara: 18 settembre 804 €
5 San Vito lo Capo (TP) - Costo medio settimana: 965 € - Settimana meno cara: 25 settembre 589 €
6 Polignano a mare (BA) - Costo medio settimana:1.307 € - Settimana meno cara: 25 settembre 766 €
7 Cesenatico (FC) - Costo medio settimana: 960 € - Settimana meno cara: 18 settembre 693 €
8 Alghero (SS) - Costo medio settimana:1.285 € - Settimana meno cara: 25 settembre 831 €
9 Lecce - Costo medio settimana:797 € - Settimana meno cara: 3 luglio 717 €
10 Riccione (RN) - Costo medio settimana: 1.224 € - Settimana meno cara: 18 settembre 749 €

La top 10 estero e i costi di soggiorno


Spagna e Grecia le preferite dagli italiani che viaggeranno all’estero. Gli italiani che trascorreranno le loro vacanze estive fuori dai confini nazionali guardano con attenzione a Grecia e Spagna, che occupano con 3 mete balneari ciascuna le prime sei posizioni della Top 10 delle mete internazionali più ricercate. Apre la classifica Mykonos seguita da Santorini (2), Majorca (3), Creta (4), Formentera (5) e Ibiza (6), in ottava posizione si trova Malta e in decima Edimburgo. Le uniche due mete extra europee in classifica sono Bali (7) e Bangkok (9).
1 Mykonos Grecia - Costo medio settimana: 2.541 € - Settimana meno cara: 25 settembre 1.313 €
2 Santorini, Grecia - Costo medio settimana: 2.611 € - Settimana meno cara: 25 settembre 2.132 €
3 Maiorca, Spagna - Costo medio settimana: 1.386 € - Settimana meno cara: 25 settembre 1.035 €
4 Creta, Grecia - Costo medio settimana: 952 € - Settimana meno cara: 25 settembre 700 €
5 Formentera, Spagna - Costo medio settimana: 1.974 - Settimana meno cara: € 25 settembre 953 €
6 Ibiza, Spagna - Costo medio settimana: 1.869 - Settimana meno cara: € 25 settembre 1.213 €
7 Bali, Indonesia - Costo medio settimana: 1.225 € - Settimana meno cara: 12 giugno 1.124 €
8 Malta - Costo medio settimana: 1.064 € - Settimana meno cara: 25 settembre 937 €
9 Bangkok, Thailandia - Costo medio settimana: 742 € - Settimana meno cara: 29 maggio 708 €
10 Edimburgo, Regno Unito - Costo medio settimana: 1.554 € - Settimana meno cara: 25 settembre 1.299 €

Numeri e curiosità


Ecco alcune curiosità emerse dall’analisi delle tariffe degli hotel prenotabili su TripAdvisor nelle destinazioni oggetto dello studio:
- L’ultima settimana di settembre è risultata la meno costosa per 13 delle 20 mete analizzate;
- La destinazione che offre il maggior risparmio percentuale nella settimana meno costosa del periodo estivo è Formentera. Qui, per soggiorni nella settimana del 25 settembre, i costi medi degli hotel scendono del 52% rispetto alla media dell’estate;
- Bangkok è la destinazione più conveniente ma anche quella con la minore fluttuazione dei prezzi. Scegliendo la settimana meno costosa per soggiornare in questa destinazione – dal 29/05 al 04/06 – si risparmia il 5% rispetto alla tariffa media

lunedì 17 luglio 2017

Nuovi obblighi del locatore

Abbiamo affrontato la questione delle conseguenze per il locatore che ometta o ritardi la registrazione del contratto di locazione, anche alla luce delle pronunce della Corte Costituzionale che avevano, come si ricorderà, dichiarato incostituzionale sia la norma (art. 3 commi 8 e 9 del D.L. vo n.23/2011) secondo cui la mancata registrazione del contratto nei termini di legge (30 giorni) comportava una riduzione del canone di locazione a favore del conduttore equivalente al triplo della rendita catastale, sia la norma emanata successivamente (art.5 comma 1 ter della L.80/2014 del 23.05.2014) che faceva salvi fino alla data del 31 dicembre 2015 i medesimi effetti.

Allora ci si era domandati cosa sarebbe successo concretamente ai rapporti di locazione che erano stati "colpiti" dalle norme dichiarate incostituzionali e, più in generale, a tutti i contratti non registrati o registrati tardivamente. A queste domande ha risposto, anche se in modo certamente non chiaro né soddisfacente, il legislatore, che ha modificato parzialmente l'art.13 della L.431/1998 (Patti contrari alla legge) attraverso la legge 28.12.2015 n. 208. Con l'introduzione del nuovo comma 5 dell'art.13, infatti, ha innanzitutto stabilito che per i conduttori che, ai sensi delle disposizioni dichiarate incostituzionali, avevano versato, nel periodo intercorso dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo 23/2011 al 16 luglio 2015 (data di emissione della prima sentenza della Corte Costituzionale), il canone annuo di locazione nella misura allora legalmente imposta del triplo della rendita catastale, l'importo del canone di locazione dovuto o dell'indennità di occupazione maturata, resta fermo a tale importo (triplo della rendita catastale dell'immobile), facendo così salvi, nell'interesse del conduttore, gli effetti delle norme abrogate. Pertanto, in base a tale nuova norma, il locatore non potrà pretendere, per tale periodo, il canone pieno inizialmente pattuito. Questa risposta appare sicuramente censurabile sotto il profilo costituzionale, perché ancora una volta fa rivivere gli effetti di norme ripetutamente dichiarate incostituzionali. Ma la riforma è intervenuta pesantemente anche sulla questione generale dei contratti non registrati o registrati tardivamente.

Innanzitutto, modificando il comma 1 dell'art.13, ha stabilito il principio secondo cui l'obbligo di provvedere alla registrazione del contratto (nel termine perentorio di trenta giorni successivo alla relativa stipula) grava sul solo locatore e non più su entrambi i contraenti, come era precedentemente. Questa novità comporta anche che, in caso di mancato versamento dell'imposta di registro, che pure compete a entrambe le parti, l'Agenzia delle Entrate potrà chiederne la corresponsione, con tanto di interessi e sanzioni, al solo locatore, dato che l'obbligo della registrazione ora grava solo su di lui. La riforma ha inoltre stabilito che il locatore è tenuto a dare, nei successivi sessanta giorni, 'documentata comunicazione" dell'avvenuta registrazione (si presume debbano essere comunicati gli estremi del versamento effettuato e il numero di registrazione attribuito al contratto), sia al conduttore che all'amministratore del Condominio (sempre che oggetto della locazione sia un immobile inserito in un contesto condominiale), al fine di consentire a quest'ultimo "l'ottemperanza agli .obblighi di tenuta dell'anagrafe condominiale di cui all'art.1130 numero 6 del codice civile", inserito dalla legge di riforma del condominio n. 220/2012. Il legislatore ha dunque addossato al solo locatore la responsabilità della mancata o tardiva registrazione del contratto e ne ha anche previsto le conseguenze: modificando il comma 6, ha stabilito che, se il locatore non provvede alla registrazione del contratto nel termine perentorio di 30 giorni dalla stipula, il conduttore può chiedere all'autorità giudiziaria, entro sei mesi dalla riconsegna dell'immobile, "che la locazione venga ricondotta a condizioni conformi a quanto previsto dal comma 1 dell'articolo 2 (per i contratti a canone libero) ovvero dal comma 3 dell'articolo 2 (per quelli a canone concordato). In tali casi il Giudice, nell'accertare l'esistenza del contratto di locazione, "determina anche il canone dovuto, che non può eccedere quello del valore minimo definito ai sensi dell'art.2 ovvero quello definito a sensi dell'art.5 commi 2 e 3" (contratti per studenti) e "stabilisce la restituzione delle somme eventualmente eccedenti". Quindi, in pratica, la mancata (o tardiva) registrazione potrebbe comportare la riduzione, da parte del Giudice, del canone di locazione al valore minimo del relativo canone agevolato.

Fino ad ora solo il Tribunale di Torino, a quanto consta allo scrivente, con sentenza del 21/04/2016 della sez. Vili civile, si è pronunciato in relazione alla nuova norma, affermando che la nullità del contratto derivante dalla mancata o tardiva registrazione deve ora ritenersi nullità assoluta, comportante l'inesistenza del contratto e non sanabile con la tardiva registrazione dello stesso. Per inciso, la sentenza di Torino ha anche ritenuto che la norma in questione non presenti alcun profilo di incostituzionalità. Secondo questa rigida interpretazione, il contratto, da ritenersi irrimediabilmente nullo anche se registrato tardivamente, potrebbe tornare in vita solo su iniziativa del conduttore e, in tal caso, il relativo canone non potrebbe eccedere il valore minimo definito ai sensi dell'art.2 o quello definito a sensi dell'art.5 commi 2 e 3, intendendo per canone minimo di cui all'art.2 della legge 432/98 il canone agevolato, benché la norma citi solo l'art.2 senza richiamare il comma 3 relativo ai contratti concordati. Risulta evidente la gravità di tale interpretazione, tra l'altro in contrasto con la precedente giurisprudenza prevalente secondo cui la nullità del contratto poteva essere sanata con la tardiva registrazione, perché non fa distinzione tra chi registra magari il trentunesimo giorno, e non ha alcun intento elusivo, e chi non registra affatto. Si è detto che la nuova norma, poiché non subordina la sua applicazione all'effettivo intento di elusione fiscale, come invece avveniva con la precedente formulazione (l'azione era infatti proponibile solo nei casi in cui il locatore avesse "preteso l'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto"), verrebbe a colpire tutti indistintamente, quindi anche quei contribuenti che non intendevano affatto eludere il fisco, avendo regolarmente dichiarato tutti i redditi percepiti.

Ma non è finita! Il nuovo comma 7 dell'art. 13 prevede che: "le disposizioni di cui al comma 6 devono intendersi applicabili a tutte le ipotesi ivi previste insorte sin dall'entrata in vigore della presente legge", per cui, sempre secondo l'interpretazione data dal Tribunale di Torino, la norma in questione attribuirebbe efficacia retroattiva (perché non vietata in relazione alle norme di diritto civile) alla disposizione ora inserita nel sesto comma, rendendola applicabile"a tutti i contratti stipulati dopo l'entrata in vigore della legge 431/1998" cioè a far tempo dal 30.12.1998! Tale interpretazione produrrebbe situazioni paradossali, come nel caso del proprietario che, per evitare gli effetti nefasti dei commi 8 e 9 dell'art. 3 del a Lgs. 23/2011 (poi abrogati), avesse provveduto alla registrazione del contratto in forza del comma 10 del medesimo decreto secondo cui: "La disciplina di cui ai commi 8 e 9 non si applica ove l
a registrazione sia effettuata entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto". Rischierebbe, infatti, laddove il contratto fosse ancora in corso, di subire le conseguenze del sesto comma dell'art. 13 della L. 431/1998, pur avendo registrato il contratto così come previsto dalla legge allora vigente. Oltretutto la nuova norma risulta in palese contraddizione con il nostro sistema tributario, che consente tuttora al locatore di registrare tardivamente il contratto a fronte del pagamento delle relative sanzioni. Ricapitolando: l'onere della registrazione del contratto, in passato a carico di ambo le parti contrattuali, è ora posto ad esclusivo carico del locatore, le sanzioni di cui al sesto comma potrebbero essere applicabili a tutti i contratti registrati oltre il termine di trenta giorni in base al combinato disposto dei novellati commi 1 e 6 dell'art. 13. Dispiace constatare come ancora una volta, al fine di contrastare l'elusione fiscale, si colpiscano pesantemente anche i locatori onesti. A questo punto non ci resta che invitare il legislatore a rivedere l'art. 13, così malamente modificato, applicando i principi dell'equità e del buon senso, o confidare ancora una volta nell'intervento della Corte costituzionale.

venerdì 14 luglio 2017

L'andamento del mercato delle costruzioni in Italia

L'edilizia italiana ha evidenziato lo scorso anno alcuni segnali di ripresa, conseguendo nel complesso una crescita degli investimenti che alcuni istituti di analisi stimano compresa tra I'1 e il 2%. Il grafico in Figura 1 evidenzia come, dopo la grave fase recessiva del periodo 2007-2014, la fine della caduta del mercato delle costruzioni si sia concretizzata già nel 2015. Secondo Cresme, la crescita moderata che ha caratterizzato il 2016 dovrebbe verificarsi anche nel il biennio 2017-2018. I tre drivers dello sviluppo del mercato sono identificati nel rinnovo residenziale, nelle infrastrutture e nel settore dell'edilizia non residenziale privata. In base alle stime formulate, nel 2016 la performance del settore edilizio è stata migliore a rispetto a quella complessiva dell'economia: il PIL italiano è cresciuto infatti dello 0,8%. Nel 2017, secondo le previsioni formulate da Cresme e Prometeia, il settore costruzioni continuerà a svilupparsi più dell'economia nazionale, conseguendo un incremento previsto in circa il 2%, a fronte di una crescita del PIL valutata nello 0,9%.
Le stime Ance sull'andamento dell'edilizia italiana indicano, invece, per il 2017 una crescita più modesta, pari allo 0,8% e quindi in linea con quella del. PIL. Il comparto residenziale assume una forte prevalenza nella destinazione degli impieghi, assorbendo circa la metà degli investimenti. Il settore del genio civile incide per circa 1/5 del valore del mercato, mentre si stima che l'incidenza dell'edilizia non residenziale sia di poco superiore al 30%. Seguendo un trend comune a molte economie mature, l'edilizia italiana tende ad essere sempre più legata al settore recupero. Gli investimenti in nuove costruzioni hanno ulteriormente ridotto il loro peso nel mix dell'edilizia italiana, che è oggi stimato nel 26%.

NUOVE COSTRUZIONI RESIDENZIALI Anche nel 2016 si è verificata una forte flessione degli investimenti in nuove abitazioni, che è stimata in c
irca il 4%. La crisi del settore e potrebbe arrestarsi solo nel 2017 ma alcuni osservatori ipotizzano che per una ripresa degli investimenti si debba attendere il 2018. Nel 2016 vi sono stati alcuni timidi segnali di ripresa del mercato abitativo. Le stime relative al 2017 indicano un'ulteriore crescita nel numero delle transazioni immobiliari residenziali. Anche i dati relativi al 3° trimestre 2016 sull'erogazione di credito per investimenti in abitazioni evidenziano un incremento sullo stesso periodo del 2015. Nonostante alcuni indicatori evidenzino una dinamicità del settore, altri elementi quali l'esistenza di un ampio patrimonio di invenduto e l'elevata tassazione sugli immobili - che scoraggia gli investimenti speculativi in case - hanno frenato il rilancio della nuova edilizia abitativa. Il perdurante stato di crisi dell'edilizia residenziale è testimoniato dai numeri sulle nuove abitazioni ultimate e immesse sul mercato. Cresme stima che nel 2016 le housing completions saranno 106.000, in flessione del 3,6% rispetto al 2015. Le nuove unità immobiliari immesse nel mercato lo scorso anno sono inferiori del 69% ai numeri record del 2007, quando furono edificate 338.000 abitazioni.

RINNOVO RESIDENZIALE Gli investimenti nel rinnovo delle abitazioni hanno evidenziato nel 2016 un andamento positivo, con una crescita che i principali enti previsori stimano in media nel 3%. Sulla crescita del compatto ha inciso in modo determinante il sistema degli incentivi. Si stima, infatti, che circa il 60% degli investimenti nel rinnovo residenziale, siano stati "incentivati". È di fondamentale importanza quindi che anche per il 2017 si siano confermati gli "ecobonus" e i "bonus per le ristrutturazioni" e che sia stato introdotto il nuovo "bonus sisma", che prevede la possibilità di detrarre una percentuale lrpef per le spese di adeguamento antisismico.

NUOVE COSTRUZIONI NON RESIDENZIALI Gli investimenti nella nuova edilizia non residenziale - sia pubblica che privata - hanno attraversato una lunga fase recessiva cominciata nel 2003 e durata per 12 anni. La crisi si è conclusa solo nel 2015 quando, a fronte di un lieve miglioramento del quadro macroeconomico, le imprese hanno avuto una maggiore propensione a intraprendere investimenti in edifici ad uso industriale, commerciale, logistico e in uffici. Lo sviluppo del settore non residenziale privato è proseguito nel 2016 e, secondo le stime, dovrebbe caratterizzare anche il prossimo biennio, per il quale si attende una crescita media annua compresa tra il 2 e il 3%. Le stime sono ovviamente subordinate al non deteriorarsi del quadro macroeconomico, sul cui andamento pesano fattori di incertezza. Gli investimenti pubblici nella nuova edilizia scolastica e ospedaliera dovrebbero evidenziare nel periodo 2017-2018 un modesto incremento, stimato in circa l'1%. Anche nel caso dell'edilizia non residenziale, le crescite ipotizzate per i prossimi anni permetteranno di recuperare solo in minima parte i crolli accusati durante la fase recessiva del mercato. Lo scorso anno il numero di transazioni relative ad immobili non residenziali ha registrato una crescita rispetto al 2015. Si tratta di un segnale incoraggiante che fa intravedere una parziale ripresa del settore.

INVESTIMENTI NELLA MANUTENZIONE DI EDIFICI NON RESIDENZIALI Nel corso della lunga crisi del settore, il comparto del rinnovo non residenziale ha avuto un andamento migliore rispetto alle nuove costruzioni. Nel 2016 si stima per gli investimenti nella manutenzione di edifici non residenziali - sia pubblici che privati - una crescita contenuta rispetto all'anno precedente. Gli investimenti che il Governo ha pianificato per la ristrutturazione e messa a nuovo degli edifici scolastici dovrebbero garantire nel biennio 2017-2018 un buon andamento del comparto del rinnovo di edifici pubblici. Si attende una crescita media annua di poco superiore all'1 %.

OPERE DEL GENIO CIVILE Secondo le stime Cresme, nel 2016 il settore delle infrastrutture ha registrato una sostenuta crescita degli investimenti, contribuendo allo sviluppo complessivo del mercato delle costruzioni. Il mercato sembra quindi aver superato la lunga crisi che era cominciata nel 2005. Nel decennio di crisi del comparto del genio civile, il valore degli investimenti si era contratto di circa il 40%. Gli orientamenti strategici identificati in tema di Opere Prioritarie si sono tradotti nell'individuazione di alcuni progetti ripartiti in stradali, ferroviari, metropolitane e Sistema Mose, per un costo totale di oltre 87 miliardi di Euro. L'evoluzione di questi progetti ha guidato negli ultimi anni - e determinerà nel prossimo futuro - lo sviluppo del mercato italiano delle infrastrutture. Un importante contributo all'espansione del settore dovrebbe venire, inoltre, dagli investimenti relativi alla ricostruzione del patrimonio pubblico localizzato nelle aree danneggiate dal sisma dello scorso anno. Sulla base dell'analisi delle previsioni di spesa della Pubblica Amministrazione e delle grandi aziende pubbliche, si stima che il comparto del genio civile possa continuare a crescere nell'anno in corso. L'incremento complessivo degli investimenti viene stimato dai vari enti previsori compreso tra il 2% e il 3%. Il progresso nello sviluppo delle infrastrutture è una condizione imprescindibile per permettere di conseguire una crescita del mercato delle costruzioni nazionale. Vista la perdurante crisi della nuova edilizia abitativa, è proprio il settore del genio civile (unitamente a rinnovo residenziale e al settore non residenziale privato) che può svolgere il ruolo di traino del mercato. Se gli impegni di spesa del Governo fossero disattesi, infatti, le previsioni sull'andamento complessivo dell'edilizia italiana sarebbero inficiate e il settore costruzioni potrebbe tornare ad accusare una modesta congiuntura.