Spunta una cedolare secca ridotta al 15% per l’affitto degli immobili non residenziali nei Comuni con meno di 5mila abitanti, per contrastare lo spopolamento dei borghi. L’ipotesi – già emersa in passato in ambienti parlamentari – è stata avanzata dalla commissione degli esperti sull’Irpef nominata dal viceministro dell’Economia, Maurizio Leo. Per gli immobili negli altri centri, invece, rimarrebbe l’aliquota al 21% già prevista fin dal 2011 per le abitazioni locate a canone libero.
I tecnici hanno suggerito un perimetro più ampio di quello della vecchia cedolare per i locali commerciali, che si è applicata ai soli contratti siglati nel 2019 per i negozi (categoria catastale C/1). La delega per la riforma fiscale, d’altra parte, parla genericamente di «immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo» (articolo 5 della legge 111/2023). Oltre ai negozi, perciò, rientrerebbero – tra gli altri – gli uffici (categoria A/10), i laboratori (C/3), ma anche altri fabbricati del gruppo D come ad esempio gli alberghi (D/2). Sull’effettiva ampiezza di questo perimetro, così come sulla decorrenza della nuova imposta, saranno decisive le coperture finanziarie. La “tassa piatta” sull’affitto degli immobili a uso diverso è infatti prevista come una semplice «possibilità» dalla legge delega.
La quantificazione del costo della nuova imposta per l’Erario è affidata alla Ragioneria generale, che è chiamata a misurare tutte le disposizioni contenute nelle proposte attuative della delega. Di sicuro la cedolare non rientrerà nel primissimo pacchetto di decreti delegati, quelli con le misure a costo zero (accertamento, calendario degli adempimenti, versamenti e così via). Ma l’ambizione è trovarle uno spazio nella legge di Bilancio per il 2024, anziché in successivi decreti attuativi. Già un anno fa il Governo aveva tentato di inserirla nella stesura iniziale della manovra, ma erano mancate le coperture.
Rispetto ad altre norme che i tecnici hanno dovuto scrivere da zero – come la deduzione delle spese per i dipendenti – la cedolare sugli immobili a uso diverso può contare su due punti di riferimento: la flat tax sulle locazioni abitative e la vecchia versione della tassa piatta sui negozi del 2019. Proprio partendo da queste discipline si può capire come potrebbe funzionare il nuovo tributo.
L’opzione per il nuovo regime fiscale sarà riservata alle persone fisiche, che secondo le ultime statistiche possiedono 1,29 milioni di immobili non abitazione concessi in locazione (di cui 789mila negozi e 168mila uffici). Come precisato dal Parlamento con l’approvazione del Ddl delega, l’inquilino dovrà essere un imprenditore (ditta individuale o società) o un professionista. L’applicazione ai contratti già in essere sarebbe insostenibile per le casse pubbliche. Quasi scontato, allora, che la cedolare si applichi ai contratti stipulati da una certa data (nella migliore delle ipotesi: 1° gennaio 2024). Nella vecchia versione c’era una clausola antielusiva che potrebbe essere riproposta: in pratica, la tassa piatta era esclusa per le locazioni già attive a una certa data, che poi fossero state risolte e nuovamente stipulate tra le stesse parti. Le Entrate avevano inoltre chiarito che il locatore poteva optare per la cedolare anche in occasione delle proroghe, parificando cioè i rinnovi alle nuove stipule.
È ragionevole ipotizzare che la nuova flat tax si applichi anche alle pertinenze affittate insieme all’immobile principale, come già succede per quella abitativa. Allo stesso modo, il regime agevolato dovrebbe essere escluso se non c’è allineamento tra utilizzo e inquadramento catastale: sarebbero tagliati fuori, ad esempio, gli uffici ancora iscritti in categoria abitativa A/2.
Fonte: Il sole 24 Ore
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